In questi giorni prepariamo il cuore alla festa, al Natale, ai doni… ed un pensiero pieno di speranza di fattivo impegno va ai tanti che caduti sotto le grinfie della psichiatria vengono abbandonati ad un crudele destino che va combattuto e scongiurato… a volte basta poco, una carezza, un abbraccio, uno sguardo, perché tutto cambi… mi appello ai tanti che non sperano più, che sono disperati perché un familiare, un amico, per una miriade di motivi, spesso riconducibili al nostro modo di stare nel mondo dove il ‘diodenaro’ ha preso il posto del Divino, si è dovuto fermare ed anziché essere aiutato è stato bloccato dagli psicofarmaci o relegato nelle comunità cosiddette terapeutiche e che terapeutiche non sono, che non tutto è perduto… basterebbe fare rete, basterebbe credere maggiormente nella vita per ridare speranza ai disperati, per ridare la vita a quanti vengono forzatamente ‘sedati’ e trattati come un ‘problema’ da cui fuggire. Riascoltando la canzone di Don Bachy non si può fare a meno di ritornare sulla condizione descritta dall’autore in ‘Sognando’. Ed è una delle poche canzoni che si sono occupate del disagio esistenziale o ontologico e per le nostre istituzioni mentale. È molto difficile trovare parole più appropriate di quelle usate dall’autore nel descrivere la condizione di chi soffre le attenzioni di una psichiatria sempre più lontana dalla vita e sempre più legata ai suoi sclerotici e cronici protocolli di ‘cura’ che in questo caso risuonano come un eufemismo per l’alta probabilità che la cosiddetta ‘cura’ si riveli deleteria per chi vi si sottopone.
La canzone ha 36 anni e non li dimostra… è di un’attualità sconvolgente. Sento che lo spirito che accompagna ogni parola e lo stesso articolato della composizione rende assolutamente l’idea di ciò che un ‘paziente’ psichiatrico si vive nei suoi numerosi attimi di vita quotidiana… questo fortissimo ed intenso senso di abbandono tocca ‘corde’ che vanno oltre ogni limite di sopportazione sino ad arrivare all’anima, alla mente, al corpo e ad ogni particella della pelle e degli organi sensibili alla sofferenza, rendendo indicibile ed inspiegabile cotanto accanimento verso chi non ha fatto nulla per meritarsi di perdere il contatto coi propri desideri, progetti, speranze, aspettative… e, come un bambino inerme, sente il suo essere liquefarsi sotto le attenzione da laboratorio di una psichiatria che ha perso il senso del limite. Ed è così che si può in un angolo lasciarsi andare ‘seduto e assente, con un cappello sulla fronte’ a contemplare in maniera disordinata idee sfuggenti che rimandano a spezzoni di vita che avevano qualcosa di umano e che ad un tratto hanno lasciato il posto al pianto dirotto che nessuno può consolare perché etichettato come fisiologico e quasi connaturato. Non sono rari i casi in cui a queste ‘grida’ si risponda con l’indifferenza che fa ancora più male della sofferenza.
Anche se si avesse ‘voglia di gridare’ si sa che nessuno ne raccoglierà il motivo, tanto meno indagherà la causa e pertanto è come se non avesse senso, eppure l’anima non ce la fa, non riesce a stare in silenzio rispetto ad una condizione che non può trovare rassegnazione. Come il pianto dirotto ed involontario, succede la stessa cosa col riso, ‘quasi fosse un gioco’… sembra come se la vita spingesse perché la speranza sollevevasse quella condizione di profonda prostrazione, anche chimica, priva di calore e di colore a cui si viene costretti. Ed è così che a difesa del ‘malcapitato’, all’emarginazione completa, arrivano le ‘voci’ che gli psichiatri fanno vivere come ‘sensi di colpa’ perché frutto del sintomo, e che invece sono unici echi di umanità percepita.
Le ‘voci’, purtroppo, giustificano le dosi massicce di farmaci. Ed è una delle prime domande che gli psichiatri fanno per dare il via alla loro opera ‘demolitrice’ che si arrestata con l’addomesticamento o con la morte del ‘reietto’, che a questo punto si rende conto che non ha più ‘futuro, né presente’ in quanto la sua vita è un eterno tormento reso possibile dalle decisioni che la psichiatria ha preso a discapito della vita del paziente, che è stata recisa delle proprie radici rendendo il ‘passato è ormai… distante’.
I versi che seguono affondano nelle parti più inaccessibili dell’anima che esplode di dolore e di rabbia perché è un delitto, per chi ne è coinvolto, dover constatare ‘Non so che cosa sia l’amore / E non conosco il batticuore’. In quell’attimo di sconvolgente ed indicibile lucidità, e forte bisogno d’essere visti dalle persone care, vien voglia di dire ‘spacco tutto quel che trovo /Ed a finirla poi ci provo /Tanto per me non c’è speranza /Di uscire mai da questa stanza’.
La morte che tutti vogliamo scongiurare in questo caso non è niente, non fa paura anche se un forte sgomento a questa eventualità accompagna chi privato di ogni speranza vorrebbe ancora vivere come fosse un diritto anche solo immaginifico, per non rinunciare all’attesa di stare meglio, almeno un po’ meglio di prima. A scoppio avvenuto entra in scena un nugolo di infermieri per adempiere al loro obbligo/dovere di immobilizzare chi ha osato tanto per renderlo innocuo, in un letto di contenzione, non risparmiandogli un’alta dose di benzodiazepine. Avviene così quel crollo definitivo anche se la mente ritorna su quei momenti in cui in ‘un tempo forse non lontano, qualcuno mi diceva: ‘t’amo’… ma la vita oramai sembra arrendersi per l’ultima volta e la canzone di Don Bachy non trova altra conclusione che una fine orrenda che la psichiatria ben conosce perché parte del suo sanguinolento repertorio disumano… ‘Ed è così che da quel dì / Io son seduto e fermo qui’… ma per noi che siamo ancora fuori dalle grinfie della psichiatria non può finire qui…
Vita Angelo
(Psicopedagogista – Docente di Filosofia e Storia)