Il bullismo continua a mietere vittime. È accaduto all’Istituto Comprensivo “Rosario Porpora” di Cefalù (Palermo), dove il giovane frequenta la seconda media. L’alunno si è versato addosso la benzina ed era pronto a darsi fuoco, ma per fortuna è stato bloccato in tempo… e chissà se la scuola se n’era accorta anche prima o era impegnata a svolgere il proprio compito/programma didattico lasciando nel limbo il dramma che i propri alunni portano dentro l’aula ogni giorno, riguardandosi nel farlo vedere.
I nostri alunni a scuola portano nella testa i compiti da verificare e nell’anima le problematiche da nascondere. Sono un po’ come il mitico Giano Bifronte. A scuola fanno vedere ciò che la scuola vuol vedere o solo ciò che ha ‘cittadinanza’ mentre il resto molto più significativo rimane negli ‘scantinati’ del non si dice, della ‘non/cittadinanza’…. le conseguenze? Farsi fuori o corrodere e ‘rodere’ la propria anima sino a renderla pesante alla vita tanto da preferirvi la solitudine, la depressione, gli attacchi di panico, il ritiro dalla scuola e dalle relazioni coi pari… ed infine il suicidio come ultima ratio per chiudere definitivamente la tragedia allocata nelle viscere di una vita delusa, esclusa, marginalizzata e disprezzata da quanti dovrebbero fare di tutto per includerà senza deluderla.
Come è possibile che un ragazzino di 12 anni, stanco di subire atti di bullismo, non abbia trovato altra soluzione che quella di provare a darsi fuoco in classe? E meno male che gli insegnanti e i compagni sono riusciti a bloccarlo altrimenti parleremmo di un altro suicidio dentro le pareti di una scuola che da tempo non funge più da ‘utero’ protettivo dei suoi alunni. Cosa sta succedendo e perché il bullismo ha vasti spazi nonostante le tante iniziative contro? Mi vengono in mente le polemiche sulla massa di immigrati che rischiano il fondo del mare pur di darsi un futuro. C’è chi pensa che il fenomeno si possa fermare attraverso la chiusura delle frontiere o qualche sparuta iniziativa politico/elettorale. Sarebbe come nascondere il sole con un dito. Ed il bullismo non è altro che la punta dell’iceberg del disagio come lo è l’immigrazione rispetto all’esodo che interessa i paesi sottosviluppati. Molto più presente in profondità e poco visibile agli occhi ‘miopi’ di una scuola spesso statica ed ingessata su una didattica che non investe sulle intelligenze emotive ma solo o spesso su quelle simboliche della ‘testa’ e del linguaggio che ne consegue. Ci si chiede: e quindi? La strada che la scuola ha percorso sinora ha dato sicuramente ottimi risultati anche se da qualche decennio non risponde più ai bisogni e alle aspettative di una società che si è fatta più liquida perché alla ricerca di un nuovo equilibrio/baricentro da tempo abbandonato insieme al modello patriarcale, ma che in atto stenta a trovare una nuova strada per sperimentare punti di vista più vicini a quanto i nostri ragazzi e le nostre famiglie si stanno vivendo.
L’età d’oro del bullismo sono le scuole medie inferiori dove c’è grande differenza tra i gradi di crescita dei ragazzi: c’è chi si sente già grande, chi è ancora piccolo, chi ha molta autonomia, chi viene accompagnato dai genitori sul cancello della scuola, chi ha le chiavi di casa e trascorre il pomeriggio con gli amici, chi fa i compiti in cucina con i propri genitori. Dunque il gruppo dei pari ha valenze diverse, per qualcuno è un rifugio, una famiglia, per altri è qualcosa di nemico, di lontano, da evitare. Succede però che, soprattutto a questa età, si faccia confusione tra ciò che si desidera e ciò che gli altri desiderano per noi. Può accadere dunque che “essere un bravo bambino” per sentirsi amato dai genitori faccia a pugni con una voglia matta di trascorrere il pomeriggio al campetto a giocare a pallone. Può succedere invece che trascorrere tutto il pomeriggio a giocare a pallone faccia a botte con una voglia matta di farsi ancora coccolare da mamma e papà. E allora? Bisogna cambiare pagina ed ancora meglio riscrivere nuovi percorsi dove gli insegnanti possano auto/formarsi per dare valore alla vita in fieri. Pensare che il compito della scuola sia quello di dare competenze ed abilità intellettuali ai propri alunni senza farsi carico del rapporto che ognuno ha col proprio mondo fatto di scuola, ma anche di casa, di sport, di amicizia, di associazionismo, di solitudine, di delusioni e di speranze, è perdere di vista la prospettiva che la scuola ha il dovere di fornire partendo dall’alunno in carne ed ossa, nella sua interezza cioè di testa e cuore, di linguaggi simbolici e corporeo/emozionali. Chi pensa che questo tipo di scuola possa perdere di vista il ‘sapere’ per il ‘sentire’ sottovaluta il dramma del disagio che la società dei consumi scarica sui più fragili che nello stesso tempo sono quelli più sensibili che sentono nelle proprie ‘corde ontologiche’ il cambiamento che rischia di travolgerci se non riusciamo ad invertirne e gestirne la direzione. La scuola come un nuovo ‘Noè’ dovrebbe assumersi la responsabilità di salvare i nostri ragazzi dal diluvio del disagio diffuso per creare le condizioni di un mondo postdiluvio in cui le istituzioni che frequentiamo possano essere più flessibili, più dinamiche e meno rigide e di conseguenze molto più attente ai travagli di una ‘gravidanza a cielo aperto’ attenta a dare più certezza e solidità rispetto al modello liquido che tende a farci precipitare nel ‘pozzo artesiano di Vermicino’ dove – ahinoi – diventerebbe problematico risalire.
Angelo Vita
(Psicopedagogista – Docente di Filosofia e Storia)