Finché ogni uomo non potrà lavorare, studiare e vivere da uomo, la Repubblica non potrà dirsi fondata sul lavoro e neanche davvero democratica (Piero Calamandrei)
La nostra Costituzione compie settant’anni perché il 27 dicembre 1947 è la data in cui il Primo Capo dello Sato, Enrico De Nicola, firma e promulga la Costituzione Italiana e che il giorno dopo viene pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale”. Probabilmente questo giorno avrebbe meritato una tavola rotonda o un convegno per la sua celebrazione ma anche per un’ampia e approfondita discussione e per diffonderne una migliore conoscenza.
Data storica di cui spesso ce ne dimentichiamo, ma è la data in cui prende forma la nostra Repubblica Italiana e che contiene i pilastri della nostra democrazia: diritti e doveri dei cittadini, organizzazione istituzionale e rapporti economici e sociali, cioè le regole fondamentali del nostro vivere civile.
L’assemblea costituente fu eletta il 2 giugno 1946 la quale nominò al suo interno, il 25 giugno dello stesso anno, la “commissione dei 75”, la quale terminò i suoi lavori nel giugno del 1947. A quel punto inizio la discussione in aula che si è conclusa, col voto finale, il 22 dicembre 1947 per andare alla firma del Presidente della Repubblica, appunto il 27 dicembre 1947 e per entrare ufficialmente in vigore il 1 gennaio 1948.
Ma oggi parlare dei suoi 139 articoli, oltre alle disposizioni transitorie e finali è impresa molto ardua e complicata, ma forse vale la pena spenderci 10 minuti del nostro tempo.
Siamo a poco più di un anno dal referendum del 4 dicembre 2016 in cui la stragrande maggioranza degli italiani è corsa a votare NO allo stravolgimento di norme fondamentali imposto dalla riforma Renzi-Boschi e io aggiungerei anche e principalmente dalla J.P. Morgan Bank, accusata, la Costituzione, di “essere troppo socialista” da qualche potere economico.
Ma nell’era del Job act (si usano termini anglosassoni quando non si vuole rivelare il reale significato?), dei contratti a termine, della rinuncia alle festività, delle rinunce dei diritti e delle garanzie ricordare, quello che recita l’art 36 della nostra Costituzione e che in tanti fanno finta di non sapere o che effettivamente non sanno, può addirittura, sembrare rivoluzionario: “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Quello che fissa una “durata massima della giornata lavorativa” e che prevede “il diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite a cui non può rinunziarvi”. Una follia eversiva coi tempi che corrono?
Potremmo proseguire con altri esempi di impietosa attualità in periodo di fallimento dei risparmiatori e non delle banche “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”: articolo 47. Sarebbe un esercizio stucchevole e improduttivo poiché nel senso comune (cosa diversa dal buon senso) la Costituzione “più bella del mondo” pare invece sia di intralcio al progresso, anche se non si dice di chi. Eppure sembra, a qualcuno, come se fossimo qui semplicemente a commemorare un documento polveroso, e in larga parte anacronistico. Questa carta sarà polverosa e anacronistica ma è quella che impedisce l’accentramento dei poteri, la salvaguardia dei diritti, pur assegnandoci dei doveri, e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche, dalle condizioni personali e sociali
Quanto è di più rivoluzionario, alla luce degli esempi fatti prima, della nostra Costituzione? Pensate a questa scena in quel di Como o nelle altre accoglienti città padane dove si vieta una tazza di latte e una coperta ai clochard esposti al gelo, solo perché ledono il decoro.
Pensate a quel gruppo di teste rasate di Casapound che si introduce in una riunione di liberi cittadini, colpevoli solo di voler assistere chi ne ha bisogno.
Pensate invece ad un pugno di temerari che irrompe tra gli esagitati di un simpatico raduno, anche televisivo, e comincia a leggere la seguente frase: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (ricordo i milioni di poveri e di disoccupati), roba da lasciarci la pelle. É l’articolo 2 della Costituzione italiana.
Come non citare l’articolo 37, che impone che “alla donna lavoratrice” sia assicurato “l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Il solito dissennato buonismo.
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, si legge nel primo articolo della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il verbo “appartiene” è importante e venne recitata col preciso intento di sottolineare la permanenza della sovranità nel popolo che non se ne spoglia con il voto. Negli ultimi tempi lo si è dimenticato, esaltando la “democrazia d’investitura”: il popolo, muto per cinque anni, riprenderebbe voce al momento delle nuove elezioni (magari per votare, come ora, una lista di candidati su cui non ha scelta). Ma il contenuto della democrazia è che il popolo abbia il potere “sempre”, e l’esercizio della sovranità lo si applica e lo si cura ogni giorno.
E che possa esercitarla, la sovranità, mediante il diritto di associarsi, di iscriversi ai partiti per influire sulla linea politica, di riunirsi e discutere gli atti dei governanti, di manifestare il dissenso in ogni forma, in primo luogo attraverso la libera stampa. Non si deve perdere di vista la permanenza della sovranità nel popolo, si smarrisce l’importanza del suo modo di esercizio, che non è soltanto collettivo ma anche individuale. I cittadini sono il popolo che non è solo il corpo elettorale.
Le libertà (in particolare la manifestazione del pensiero) sono infatti presupposti indispensabili per una cosciente partecipazione politica e, consentono ai cittadini la pubblica critica e il controllo. Presupposti indispensabili sono anche i diritti sociali all’istruzione in primo luogo, alla tutela della salute, a una situazione economica dignitosa, considerati da tutti precondizioni della democrazia. L’emarginazione non consente una partecipazione effettiva.
Una certa idea di sovranità popolare da tempo in circolazione conduce infatti alla pretesa esigente che chi governa per mandato del popolo abbia ricevuto un’investitura di tale potenza da non sopportare limiti o condizionamenti da parte di altre istituzioni neutrali prive della stessa legittimazione e che nessuno possa contrastare il “sovrano” e che in forza di un’elezione che gli “trasferisce” il potere, rivendica un’autonoma posizione di sovranità.
Ora si va anche oltre: il Parlamento stesso, espressione diretta della volontà popolare, è considerato un impaccio da eliminare. A più riprese infatti, Presidenti del Consiglio, hanno dichiarato di voler legiferare sempre con decreti-legge, o a colpi di voti di fiducia evitando il dibattito in Parlamento, tant’è che qualcuno lo ha definito un “Parlamento di figuranti” o “schiaccia bottoni”, dove i deputati, obbedienti a chi li ha designati e pronti a votare a comando, sono ininfluenti. Si vuole eliminare ogni, sia pur debole, voce?
É questo l’approdo di una concezione autoritaria e acritica della sovranità popolare che conduce a risultati di concentrazione del potere e di forza attribuita al capo, che rappresenta la negazione delle ragioni profonde della democrazia. I limiti al potere della maggioranza costituiscono l’essenza della democrazia. Il potere controllabile, perchè diviso fra più organi, insieme ai diritti e alle libertà ne sono l’essenza. La democrazia non solo presuppone un’opposizione, ma riconosce e protegge la minoranza con diritti e libertà fondamentali. Non c’è democrazia senza pluralismo.
Nell’articolo 2. “La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. I primi tre articoli definiscono le linee, ponendo tre fondamentali principi: centralità della persona, pluralismo, solidarietà. È l’opposto della prospettiva dei regimi autoritari nei quali al centro del sistema è lo Stato, valore primario cui l’individuo è funzionale.
Fondamentale l’aver posto l’anteriorità della persona rispetto allo Stato e sulla necessità di rendere i diritti davvero “inviolabili”, sottratti all’arbitrio del legislatore, immodificabili persino mediante il procedimento di revisione costituzionale (art. 138).
Una Costituzione “rigida”, ma modificabile con un procedimento aggravato (art. 138 Cost.) che include le minoranze, per impedire alla maggioranza di disporre da sola della Costituzione. Una garanzia che, per essere effettiva, richiede un organo in grado di controllare le leggi e dichiararle illegittime se contrarie ai principi: la Corte costituzionale.
Tanti i valori richiamati dalla nostra Costituzione: la “pari dignità sociale” essenziale all’eguaglianza (art. 3), la “dignità umana” limite all’iniziativa economica privata (art. 41), i trattamenti sanitari (art. 32); il divieto di pene contrarie “al senso di umanità” (art. 27) e di “ogni violenza fisica e morale” sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà (art. 13), l’esistenza “libera e dignitosa” che la retribuzione deve (dovrebbe?) assicurare al lavoratore (art. 36), il valore della persona e della sua dignità guida la Costituzione intera.
Ci sarebbe molto da dire sulla “solidarietà” e i “doveri” che l’art. 2 della Costituzione impone: li conoscono gli evasori fiscali? Li conosce lo Stato che tanto benevolmente li tratta?
L’articolo 3, malvolentieri applicato dai governanti, è stato spesso messo in gioco. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. L’eguaglianza sta ora alla base delle democrazie costituzionali di tutto il mondo: l’eguaglianza di fronte alla legge vieta sia le discriminazioni che i privilegi. Ma è sempre vero?
Oggi, eliminata dalle norme (da quasi tutte almeno), la diseguaglianza resiste nei fatti, non essendosi realizzato il programma sociale che la seconda parte dell’art. 3 prevede. Neanche il “privilegio” è morto: chi è al potere tende ancora a resuscitarlo per sé.
L’articolo 3 stabilisce il principio generale di eguaglianza dei cittadini di fronte all’ordinamento, e, insieme, vieta alla legge di dar rilievo a determinate caratteristiche o situazioni: sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
Articolo 3, comma 2. Nella realtà i cittadini non sono eguali e la Costituzione ne prende atto: i profondi dislivelli economici, culturali, sociali che li dividono devono (meglio dovrebbero) essere ridotti perché si realizzi un minimo di omogeneità sociale indispensabile al funzionamento della democrazia. Nel primo comma si tutela la persona e la sua dignità, tutti i cittadini hanno “pari dignità sociale” e sono eguali davanti alla legge senza distinzione “di condizioni personali e sociali”, nel secondo si impone allo Stato il compito di assicurare le condizioni necessarie per il pieno sviluppo della persona e per una partecipazione effettiva all’organizzazione politica, economica sociale del Paese. Si riconferma così, in nome della persona, il necessario intervento dello Stato al fine di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il secondo comma dell’articolo 3 è la base dei diritti sociali, senza i quali diritti di libertà sono formule vuote: che cosa se ne fa della libertà di stampa un analfabeta? O chi non può comperare un giornale? L’istruzione, la salute, oltre a condizioni economiche sufficienti a rendere dignitosa la vita, sono le precondizioni della democrazia. È però un programma da realizzare. Un programma che, a settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, non è stato ancora realizzato. Oggi anzi l’ordinamento italiano sembra aver imboccato un cammino a ritroso, verso un’ulteriore estensione delle diseguaglianze. Paiono in discussione le stesse basi ideali sulle quali poggia il nostro sistema democratico.
Quello che segue è uno stralcio del discorso che Piero Calamandrei tenne agli studenti della Cattolica di Milano il 26/01/55 sulla Costituzione. Leggete quanto sia attuale!
L’articolo 34 dice: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: “E compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. (…..) quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo.
Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1 – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi! (……)
Ma è una Costituzione, non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche, dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e quindi poter contribuire al progresso della società.
Però, vedete, la Costituzione non è macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è una malattia dei giovani (e forse anche di tanti meno giovani, aggiungo io) (…)
É così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io, Il mondo è così bello, ci sono tante cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quante vale solo quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché il senso di angoscia non lo dobbiate provare , ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.