Con la fine delle vacanze natalizie si rientra tutti a scuola e si riprendono le relazioni iniziate col mese di settembre nella convinzione che si possa dare di più rispetto a quanto dato e messo in gioco da ciascun insegnante in ogni ordine e grado. Pertanto attrezzati di stetoscopio andiamo all’auscultazione del nostro sistema scolastico per capire il battito cardiaco attraverso l’aorta dell’intercultura vera arteria di una scuola che viaggia sulle acque agitate di un mare forza otto. Fuor di metafora nella vita scolastica il linguaggio dell’interculturalità ha trovato tante modalità per farsi spazio. Sono oramai più di vent’anni che sussiste un forte scambio tra ragazzi di culture diverse che utilizzano le aule scolastiche per dare respiro al proprio modo di stare in un mondo dove tutto è cambiato ed a tutti viene richiesto di adeguare abilità, competenze e vissuti a partire da nuove concezioni che la società post tecnologizzata ci pone davanti senza se e senza ma. La richiesta a caratteri cubitali che il nostro tempo pone alle giovani generazioni, e non solo a loro, è di tenere conto di nuove e diffuse competenze plurilinguistiche e metaculturali ritenute indispensabili per andare oltre i propri ‘territori’ contrassegnati da localismi obsoleti e restii a rifarsi un nuovo look all’altezza delle sfide odierne.
La scuola, seppur tra mille difficoltà, sta cercando di rispondere – in primis – come può ad un modello socioeconomico ingessato e statico dato da una visione distorta dello sviluppo e del progresso che di fatto rende spesso vani i tentativi di costruire percorsi incentrati sull’allievo inteso come soggetto/ontologico proprio perché gli si chiede di sviluppare capacità efficientiste e produttive che esulano dall’idea di una certa pedagogia della differenza, tale modello – checché se ne dica – non si cura dei desideri e dei bisogni del ragazzo in formazione, pertanto i risultati tardano ad arrivare, questo perché ci troviamo al cospetto di una dialettica schizofrenica.
Mentre da una parte la scuola dell’intercultura’ lavora per formare cittadini – direbbe Paulo Freire – liberi e disponibili a tradurre i confini in soglie, dall’altra la società (liquida) messa sotto le lenti di ingrandimento da Baumann tende a rendere sempre più ininfluente lo sforzo di pedagogisti ed educatori che operano per dare una prospettiva ontologica e non mercenaria alla persona in cammino verso un mondo aperto all’uomo e alla sua umanità anziché alla sua capacità di creare ricchezza come se fosse questo lo scopo della nostra esistenza. La fine dell’uomo/efficiente e produttivo è stata ben descritta da Giovanni Verga ne ‘La roba’… staccarsi dai capitali/proprietà acquisiti è molto doloroso specie se si costruiscono rapporti simbiotici con la ‘roba’. La disperazione di Mazzarò (“ricco come un maiale“) ne è la metafora. Lo sforzo della pedagogia ‘costruita’ negli ultimi due secoli, da quella fichtiana a quella deweyana – solo per citare le correnti teorico/prassiche più vicine all’idea che stiamo cercando di sviluppare – stanno percorrendo la strada in ‘divieto’, controcorrente e contro la legge sulla gravità perché di fatto il controllo strutturale della società in cui ci troviamo a fare le nostre battaglie ce l’ha l’economia, l’impero finanziario… ce l’hanno le multinazionali che entrano nelle nostre case/teste senza permesso e a gamba tesa perché le loro ‘armi’ sono così potenti ed affilate che non temono conflitti. Loro hanno vinto mentre la pedagogia dell’inclusione ha perso perché costretta a recitare il ruolo di cenerentola, del brutto anatroccolo, di pollicino che li sperimenta tutte pur di ritrovarsi e darsi un’appartenenza che di fatto non ha in quanto merce tra la merce, oggetto tra gli oggetti, cosa tra cose.
In questo approccio, necessariamente sintetico, è importante farsi accompagnare dalla ‘verità’ che nella sua rivoluzionaria franchezza ci libera dai lacci e dai lacciuoli della retorica che l’epistemologia dell’interculturalità dovrebbe cercare di mettere da parte se davvero vorrà costruire le basi per un’idea di educazione che mini la ‘struttura’ di cui stiamo parlando per facilitare un cammino in cui i divieti siano contro l’uomo/merce/oggetto/profitto e le strade nuove siano cosparsi di cifre ontologiche in cui prioritaria sia la persona in ogni sua umana manifestazione esistenziale. Perché questo ‘procedere’ possa partorire qualcosa che dia senso al lavoro che questa tematica offre si ritiene utile inquadrare l’intercultura nel rapporto che ogni individuo cerca di attivare con l’altro all’interno di contesti in cui vi sia la possibilità di una reciproca crescita fatta di scambi ma anche e soprattutto di ‘incontri’ tra culture e vissuti/altri che spesso non hanno cittadinanza nelle scuole per motivi di ordine culturale e religioso.
Lo stridere tra le sovrastrutture e le strutture… le leggi che garantiscono la mercificazione degli uomini e ciò che dovrebbero contrastarle (la mission della scuola in primis) trovano nella metafora dell’incontro tra culture/altre la vera idea fondante in grado di mettere fuori gioco quella sindrome schizofrenica di cui sopra che in questo momento appare lontana dall’essere aggredita ed addomesticata, ragion per cui una scuola che gioca le sue ‘carte pedagogiche’ sull’incontro delle diversità/differenze culturali, religiose ed etniche si propone come un percorso di crescita condiviso che in potenza possa far rinascere una nuova specie di uomini e donne liberati dai lacciuoli di un modello economico-finanziario mercificante e mercenario che in atto lascia poche speranze alla ricomposizione di una diatriba che si è giocata contro l’uomo ‘freireiano’ e che soffre l’incapacità o, se vogliamo, l’inconsistenza di un modello pedagogico-ontologico pieno di parole nuove e assai vuoto di senso.
Angelo Vita
(Psicopedagogista – docente di Filosofia e Storia)