L‘etimologia di ‘solo’ ci porta al latino ‘sollus’ che significa, intero, solido e pertanto forte, corposo… ed è un ‘solo’ con sé stessi che mette insieme le tanti parti che siamo come fosse un passaggio dall’embriogenesi (formazione degli organi vitali) alla fetogenesi (interazione degli organi già formati); che ci riporta ad un ‘fèo’ (di fetogenesi) ovvero generare dal significato eloquente… l’essere soli pertanto ha in sé la funzione generativa e fusionale delle parti che siamo e che spesso subiamo quando non li sentiamo nella loro interconnessione naturale. L’altra faccia di ‘Giano’ potrebbe rappresentarcela Nietzsche quando pensa “me ne vado nella solitudine per non bere nella cisterna di tutti”, il rischio evidentemente è l’estraneazione rispetto agli altri e soprattutto a se stesso. Ed il filosofo tedesco questo lo ha colto per intero vivendolo. La sua solitudine risulta in tal senso drammatica perché rispetto ai suoi contatti e vecchie amicizie lui ha preso una via dove nessuno l’ha potuto seguire, tant’è che solo dopo qualche secolo dalla sua scomparsa ci si avvicina alla sua filosofia senza denigrarla o utilizzarla a fini (estranei) che nulla hanno a che vedere con le sue teorizzazioni.
La sua ‘pazzia’ è il sintomo dell’alienazione/estraneazione rispetto agli altri e a se come a significare il valore quasi divino della speculazione filosofica che della solitudine si serve… diceva Fabrizio De Andrè commentando l’album ‘Anime Salve’ “sostanzialmente quando si può rimanere soli con se stessi io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante. Il circostante non è fatto soltanto dei nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle … e se si riesce ad accordarsi meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addirittura che si riesca a trovare anche delle migliori soluzioni e siccome siamo simili ai nostri simili, credo si possano trovare soluzioni anche per gli altri”… ed aggiunge “mi son reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura. Invece l’uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura…”
La solitudine ha il suo fascino perché riesce a regalarci delle parti di noi che coincidono con quelle di madre/natura… proviamo ad osservare il mare d’inverno e possibilmente in un giorno di vento in cui la sabbia sembra attirare a sé le onde sino a farsi bagnare completamente… l’unica cosa che ci viviamo è quel senso di forte solitudine che agitando il mare arriva sino all’anima di chi l’osserva scuotendola… e quasi lo spinge via per non renderlo partecipe di quel moto che sembra non finire mai ed infondere quel senso di finitudine e vulnerabilità… pur consci che prima o poi lo stesso panorama de/solante si offrirà alle belle giornate tornando disponibile a tutti. E se, in quel momento, proviamo a fermare lo sguardo su qualsiasi punto del mare tutto sembra essere stato ed essere così da sempre. Quasi ci si dimentica delle giornate di ‘mare/io’ accogliente. Ecco, in quel punto di mare dove si fissa lo sguardo, c’è quella parte di noi che si vive la propria solitudine a cui ci si abbandona pensando sia lei il legame con la nostra profondità bio/organica molto più vicina alla madre/natura rispetto ai nostri pensieri effimeri. La solitudine può essere una buona compagna di vita che come un ascensore sale sino alla parte più alta della vita che non si trova nella nostra testa razionale ma nell’anima… in quel posto in cui tutte le cellule del nostro organismo si fondono per regalarci il miracolo che siamo e viviamo. In solitudine si fanno le cose più alte come quelle più basse. Si decide il futuro nostro e – ahi noi – a volte anche quello degli altri.
È sempre la solitudine che ci porta a fare… ad innamorarci perdutamente/infinitamente dell’altra/o; a dipendere da cose o persone e possibilmente evitare d’incrociare il pregiudizio altrui quando facciamo cose che non vogliamo condividere come fare la fila al ‘gratta e vinci’ (sarebbe meglio/vero ‘perdi’); bere alcolici più del dovuto; farsi uno spinello o molto di più… la solitudine dentro ad ognuno di noi trova sempre una sua modalità che ci rende unici come decidere un atto eroico; dedicarci completamente ad una causa condivisa; fare una buona azione a costo di perderci o l’esatto suo contrario come decidere di compiere un gesto criminale che mette in pericolo gli altri; suicidarsi… sono tutti gesti pro e contro che passano dalla solitudine la cui egida non viene mai scalfita quando in palio c’è la nostra decisione prima o ultima direbbe Aristotele.
Scrive Monsignor G. Ravasi “L’uomo di oggi non è più capace di stare solo perché ha sempre davanti il vuoto, e stare nel vuoto è un’assurdità. Specialmente i giovani ne hanno paura, e infatti aumentano gli ingredienti del rumore, del suono violento”. Il cosiddetto ‘vuoto’ ci mette a contatto con ciò che solo noi siamo e questo a volte ci fa paura, ci procura angoscia perché ci fa vedere la nostra parte dismatura, quella che non ha avuto la giusta attenzione per fare quel salto precipiziale verso la pienezza del nostro esserCi sempre e comunque in solitudine e ed in compagnia, pur sapendo che il rimanere soli con noi stessi ci obbliga a fare i conti con le nostre parti frammentate da vissuti incompiuti ed insoddisfatti. Certo che la massima di Nietzsche non lascia molti margini a chi ha difficoltà ad incontrare se stesso. Lui asserisce che persino l’idea di Aristotele che “per vivere soli bisogna essere o un animale o un dio… manca dell’aggiunta che “bisogna essere l’uno e l’altro” ovvero “un filosofo”… credo che nemmeno Platone avrebbe nulla da ridire su questa aggiunta proprio perché i filosofi tendono a prendersi sul serio ed a ricercarsi per ricercare il proprio ‘jahvè’ l’impronta indelebile cioè della propria individualità, che poi è quella che ci spinge a fare i conti con noi stessi e conoscerci di più e meglio. E solo ‘se un uomo perde il filo, è soltanto UN UOMO SOLO’. (I Pooh)
Angelo Vita – (Psicopedagogista/docente di Filosofia e Storia)