La vittoria del NO, con una larga maggioranza, nel Referendum costituzionale del 04 Dicembre 2016 ha avuto almeno due grandi meriti:
il primo indiscutibile merito è stato quello che ha consentito la salvaguardia della “più bella Costituzione del mondo” dagli attacchi di chi voleva diminuire i diritti e gli spazi di democrazia nel nostro paese;
il secondo merito è che la vittoria del NO è stata la causa scatenante di questa importante discussione politica dentro il PD dove adesso tutti, maggioranza e opposizione, riconoscono che ci sono stati degli errori nell’azione governativa e nella conduzione politica e nel programma del partito.
Non voglio immaginare cosa sarebbe successo se malauguratamente avesse vinto il SI, tutto sarebbe stato asfaltato, opposizione, critiche esterne e interne, e nella maggioranza, nessuno si sarebbe accorto degli errori che oggi tutti invece riconoscono.
Le disuguaglianze, l’umiliazione e lo smarrimento del lavoro, la disoccupazione in particolare giovanile e nel sud, l’emigrazione che alimentano culture di chiusura e aggressive non venivano riconosciute.
Il Pd in questi anni ha smarrito buona parte del suo progetto originario, che era fondato su un’ispirazione aggregante e popolare, un’impostazione saldamente costituzionale e democratica e fortemente pluralista, quest’idea si è via via rinsecchita.
Abbiamo perso rapporti con pezzi di popolo su questioni cruciali come il lavoro, la scuola, le politiche economiche e fiscali. Siamo guardati con ostilità da una parte larga della nuova generazione. Abbiamo fatto alleanze con banche, sistema finanziario e petrolieri.
Le ripetute sconfitte degli ultimi due anni e l’allontanamento evidente di iscritti e di elettori sono stati totalmente ignorati ed è mancata una discussione vera.
Dunque ognuno deve riconoscere che c’è parecchio da correggere nell’azione di governo e nella vita del partito.
E c’è assoluta urgenza di farlo. Il Pd non può essere collocato nella casta, ma la sua forza la deve trovare in chi si sente escluso e non si piega alle nuove demagogie e ai populismi.
Come si vede, altro che bizantinismi o questione di date, si tratta di questioni serie e vitali per il paese e per il Pd.
Dobbiamo discutere davvero, come forse mai in nessun altro Congresso. Non è vero che non ci sono idee.
È vero invece che non c’è un posto impegnativo per discuterne. Una discussione sincera può essere la nostra occasione. Forse l’ultima. Come è possibile che un’assemblea, dove hanno partecipat0 700 delegati, si chiuda senza conclusioni? I tanti interventi che hanno cercato di dare il proprio contributo a cosa sono serviti?
L’attuale maggioranza e questo governo possono e devono operare fino alla scadenza naturale, per correggere le cose che non hanno funzionato.
La data ordinaria e statutaria del Congresso può consentire un percorso in cui si avvii con una discussione comune, che ridefinisca il perimetro e i muri della nostra casa, i cardini essenziali della nostra proposta prima di passare alla sfida tra i candidati. Serve dunque, una riflessione fondante che definisca il profilo del Pd di fronte alle sfide nuove, un passaggio da costruire con un lavoro unitario.
Serve la conoscenza del quadro di regole elettorali nel quale inserire la proposta politica.
Questo percorso semplice, logico e utile al paese, viene inopinatamente e incomprensibilmente stravolto.
Si trasforma il percorso congressuale in una immediata e rapida conta, cancellando così ogni ipotesi di riflessione strategica e bruciando l’unica possibilità di una correzione di rotta. Nel pieno fra l’altro di una discussione parlamentare sulla legge elettorale che in queste condizioni rischia il binario morto.
Ecco allora la domanda di fondo. Tutto questo perché? Qual è la ragione di questo stravolgimento? Esiste una motivazione comprensibile e pronunciabile? No
Allora prima il paese, poi il partito, poi le esigenze di ciascuno. Questo criterio, è la base stessa della politica.