Il 14 luglio di 73 anni fa gli l’esercito americano entrò a Favara e pose fine alla dittatura fascista, almeno nel nostro paese. Su quei giorni concitati si è scritto e detto molto poco. Oggi, le testimonianze oculari iniziano a scarseggiare e la loro attendibilità scema con il passare degli anni. I protagonisti di questo breve lasso di tempo non hanno lasciato diari, libri e documenti di una certa rilevanza storica che ci possano permettere di ricostruire questi 15/20 giorni di storia in maniera più compiuta. Presso l’Archivio di Stato sono custoditi pochi documenti che lo storico favarese Biagio Lentini ha rinvenuto e prontamente pubblicato nel suo libro, scritto in collaborazione con Giuseppe Limblici, dal titolo: “Favara: dalla Liberazione all’assassinio di Gaetano Guarino”.
Dunque, le nostre fonti sono state rintracciate nelle accreditate riviste di storia militare, istituti storici dell’Età Contemporanea, testimonianze orali e da pochi cenni storici estratti da qualche scarno paragrafo di storia locale.
Grazie a questi documenti e testimonianze siamo riusciti a rispolverare dei momenti di vista vissuta molto curiosi che stuzzicano la fantasia del lettore e ci riportano, nel bene o nel male, con gioie e dolori, con nostalgia e serenità, nella Favara di allora.
Baldassarre Capodici, nel suo libro “Odissea di un migrante”, riporta la storiella di un antico contadino favarese che, praticamente, in tempi non sospetti, predisse l’arrivo degli americani a Favara.
Nei fatti, questo veggente lavoratore, giunto all’altezza del cimitero nuovo, ove si dice esistette un enorme albero di fico selvatico, disse: “Picciò! Viditi unni c’è ‘sta ‘ranni macchia di ficu? Quacchi vota drocu ci sarà un cimiteru.” Poi, aggiunse: “Av’a succediri na ‘ranni e longa guerra tra l’Italia e l’inghilterra e l’Italia av’a perdiri. I ‘nghilisi hannu a trasiri a Punta Bianca e chissà mari av’a a dimintari tuttu russu di sangu”.
Parole veramente profetiche che, in parte, si avverarono.
Durante il periodo d’occupazione americana la maggior parte dei favaresi rimasero sbalorditi nel vedere uomini dalla pelle nera con le divise dell’esercito americano. Infatti, fra i militari U.S.A. di stanza a Favara ci furono molti uomini di colore che, all’epoca dei fatti, il nostro popolo sconosceva. Favara non era una terra di immigrazione ma di emigrazione.
Un episodio degno di nota capitò ad Antonio Palumbo, temerario rappresentate dei “jurnatara” che non esitò ad impegnarsi fattivamente per l’attuazione della riforma agraria del ’44. Egli, quando arrivarono gli americani a Favara, era già vedovo. Come si usa ancora dalle nostre parti, il lutto viene manifestato indossando abiti neri. Antonio Palumbo, all’epoca dei fatti, si trovava in piazza della Vittoria a chiacchierare con un suo amico. I militari americani, vedendolo vestito di nero, pensarono che si trattasse di un fascista e lo accerchiarono minacciosamente. La sorte volle che tra quei soldati ci fosse un militare di origine siciliana che spiegò agli altri le nostre usanze, togliendo così dai guai il nostro illustre compaesano. Non è mistero che molti dei soldati americani fossero di origine siciliana e che, all’occorrenza, parlassero anche il nostro dialetto. Furbescamente gli americani si servirono dei nostri emigrati al fine di avere una maggiore conoscenza del territorio e degli indigeni. In realtà, l’esercito americano si servì anche di un interprete favarese, un tale Francesco Crapanzano, emigrato in America.
Una delle questioni più spigolose vide come protagonista Giulio Grasso (lo storico favarese Carmelo Antinoro mi ha riferito che, Giulio Grasso (in realtà Vincenzo Grasso) di Alessandria della Rocca, sposò Filippa Arnone nel 1901 figlia di Celestino e Antonia Redimorati in piazza Cap. Vaccaro. Libertino Arnore, fratello di Filippa, possidente, celibe, della media borghesia favarese, aveva fatto accesso alla massoneria nel 1910), nipote di Libertino Arnone sindaco di Favara dal 24/05/1922 al 27/08/1924. Egli, dopo l’entrata delle truppe Alleate a Favara venne accusato da un fascista, di cui non cita il nome, e da tre suoi complici di aver favorito l’entrata delle truppe americane e di essersi messo a sfilare alla sua testa. Ma le accuse non finirono qui. Infatti, i calunniatori, osservarono che Giulio Grasso aiutò gli americani nella cattura dei bersaglieri italiani sbandati ed inoltre asserirono che incitò il popolo al saccheggio e che usò una radio clandestina per comunicare con il nemico.
Giulio Grasso, non digerì queste critiche e scrisse una lettera aperta ai cittadini favaresi, autorizzata dalla prefettura di Agrigento (Lettera aperta ai cittadini favaresi, autorizzazione della Prefettura di Agrigento, N. 02239 del 7/11/1944), dove spiegò per filo e per segno come andarono i fatti.
A sua discolpa, Grasso scrisse: “fui fermato da un militare americano, che si trovava a bordo di una camionetta, e che costui, dopo di avere preteso che io lo accompagnassi alla stazione, mi ricondusse in piazza; che pregato dai carabinieri feci un breve esordio in piazza, per calmare il popolo, affamato da quattro giorni, che pregato ancora una volta dai carabinieri, mi recai con loro dal comandante della polizia Alleata, pregandolo perché fosse continuato il servizio di ordine pubblico; che all’arrivo degli ufficiali americani in Municipio, mi recai da loro per avere nafta per il funzionamento dei mulini1 ”.
La questione ebbe un certo rilievo. Non a caso, nella suddetta missiva, Grasso parla di “onore personale” e di gratitudine nei confronti di tutti quei cittadini che hanno testimoniato in suo favore elogiando, in modo particolare, il sindaco Gaetano Guarino; il quale si impegnò per smascherare i calunniatori. L’autorevolezza e l’onesta del nostro primo cittadino basta e avanza per discolpare Grasso.
In questo limitato lasso di tempo si parlò dell’omicidio di un soldato americano, reo di aver fatto delle insistenti avance alla moglie di un favarese. L’omicidio avvenne nei pressi della collina San Francesco. Altro analogo caso, anche se a parti invertite, fu l’uccisione di un contadino favarese in contrada San Benedetto perché scambiato per un militare nemico.
È storia nota che, i ragazzi favaresi più furbi accompagnavano i soldati americani nel vicolo scannatoio, deve c’erano le puttane del paese, per razziare di ogni bene le macchine che i soldati lasciavano temporaneamente incustodite. Inoltre, chi lavoricchiò con i soldati americani fece una fortuna.
Leggenda vuole che, la città di Favara evitò i bombardamenti aerei grazie ad un generale di origini favaresi o comunque di un paese limitrofo che operava nello staff di Patton della 7aArmata americana. Rimase famosa il ritornello di una ballata popolare, nata a Favara in seguito a quegli anni, che così drammatizzava: “L’americani sinni eru e li corna ni ristaru” (gli americani se ne andarono e le corna sono rimaste). La ballata dà adito a varie interpretazioni, anche se noi crediamo che probabilmente si riferisse ai residuati bellici, abbandonati dai soldati e disseminati nelle campagne che causarono per oltre un ventennio la morte o la mutilazione di grandi e soprattutto bambini. I più maligni, ma non tanto, pensano che alcune ragazze favaresi si siano facilmente concesse ai soldati americani in cambio di qualche dollaro o di beni di prima necessità. La fame e la miseria di allora, purtroppo, non ci permettono di escludere questa ipotesi.
Ci fu anche chi volle ironizzare tredici anni dopo l’arrivo degli americani a Favara con una eloquente barzelletta pubblicata dal giornale “La Voce di Favara” il 9/09/1965:
“Pippo: come ti spieghi il fatto che gli Americani non lanciarono bombe a Favara?
Gianni: videro il paese come un cadavere ed ebbero pietà di un morto”.
Pasquale Cucchiara